mercoledì 22 maggio 2013

Christian Z.

Tagliai attraverso i campi di granturco per andare da Suellen. Le piante di mais erano quasi pronte per il raccolto. Mi avevano superato in altezza di almeno due spanne, toccando i due metri. E quando succede, mio padre dice che è quasi ora di passare con la trincia e il trattore. Seguivo il sentiero sterrato sotto il sole cocente di mezzogiorno, con la pelle arrossata e l'afa che mi appiccicava i vestiti addosso.
Mi tolsi la maglietta, la avvolsi intorno alla testa e feci i risvolti ai bermuda.
Il frinio delle cicale viaggiava nell'aria come la puntina di un giradischi rotto, bloccata su un vecchio vinile. I piedi sudati sembravano cresciuti di una misura, da quanto erano gonfi.
Una volta arrivato dalla mia donna, avrei fatto un bel bagno. Mi avrebbe strofinato la schiena con una spugna morbida e l'avrei tirata dentro la vasca per farci l'amore. La sua fattoria era distante, e con la macchina ci vogliono un paio d'ore per raggiungerla. Il sentiero mi permetteva di dimezzare i tempi. Sapevo che avrei sofferto il caldo e gli insetti, ma erano una tortura sopportabile per andare da lei.
A un certo punto notai qualcosa tra le piante. Era un pallone da calcio. Lo raccolsi e mi sporcai le mani di sangue. Mi si rizzarono i peli sulle braccia e l'ansia mi aggredì il cuore, che cominciò a galoppare.
Lo lasciai cadere, e dopo essermi pulito sui bermuda presi il cellulare dalla tasca. Chiamai lo sceriffo, che mi disse di aspettarli lì, che ci avrebbe messo un'ora, e di fare attenzione. Rimesso il telefonino in tasca mi guardai intorno. Delle foglie chiazzate di rosso e alcune piante schiacciate indicavano una direzione ben precisa. Mi addentrai seguendo le tracce di sangue; trovai una scarpa da ginnastica, e subito dopo una bicicletta.
Ci fu un colpo. Come un martello su un'asse di legno.
Ne seguì un altro.
Mi spostai verso quella che credevo la sua direzione, facendomi strada attraverso il granturco. Capii che era quella giusta perché, man mano che mi avvicinavo, il rumore si faceva sempre più forte.
Arrivai in una piccola radura, con uno spaventapasseri piazzato al centro: era alto due metri, con un grosso cappello di tela, camicia a quadrettoni e salopette. La paglia sembrava voler scappare fuori dal vestito. La testa era un sacco di iuta dove avevano attaccato un paio di bottoni per gli occhi e disegnato un ghigno malefico col pennarello.
Un altro colpo lo fece sobbalzare, e quasi mi venne un infarto.
La voce di un bambino proveniva dal sottosuolo: piangeva a dirotto e urlava chiedendo aiuto. Smossi la terra vicino alla base del palo. Lo spaventapasseri non era conficcato nel terreno ma era appoggiato su una base quadrata. Lo spostai e trovai una botola di legno, chiusa da un catenaccio e un grosso lucchetto.
Si aprì quel poco che il catenaccio permetteva.
Una piccola mano sporca di terra uscì fuori; tremava come attraversata da una scossa elettrica.
«Aiutami, ti prego. Mi hanno preso e buttato in questa fossa.»
«Sei ferito? Ho visto del sangue.»
«Mi ha buttato fuori strada col furgone. Ho un taglio alla gamba.»
«Come ti chiami?»
«Skip.»
Mi abbassai per guardare nello spiraglio: due occhi azzurri venati di rosso, gonfi dal pianto ininterrotto e pieni di terrore spiccavano nell'ombra.
«Io sono Alex. Dimmi Skip, da quel taglio stai perdendo molto sangue?» dissi tentando di avere un tono rassicurante.
«Sembra che non sanguini più.»
«Bene. Tieni, ti passo la mia maglietta, legala intorno alla ferita.»
Gliela passai e continuai:
«Sapresti descrivermi chi è stato? Hai parlato di un furgone.»
«Sì, lo guidava una signora bionda. Mi ha affiancato sulla strada e poi ha sterzato all'improvviso. Sono caduto, mi ha preso e portato qui. Ora è andata via. Ha detto che doveva andare a prendere qualcuno.»
«Ascolta, ho chiamato lo sceriffo e arriverà tra poco. Devo andare a cercare qualcosa per rompere il lucchetto.»
«Ho una pietra. Quando mi hanno chiuso qui sotto mi sono messo a scavare la terra e l'ho trovata. Volevo rompere la botola, ma non ci riesco.»
«Puoi passarmela?»
Skip riuscì a darmi il sasso. Cominciai a colpire il lucchetto, ma non ne voleva sapere di cedere.
Durante una pausa per prendere fiato si sentì il motore di un'auto in lontananza.
«È lei. Sta arrivando» disse Skip in agitazione.
«Ascolta, devo nascondermi.»
«No, no, ho paura.»
«Rimarrò nelle vicinanze. Stai tranquillo, non ti succederà niente. Ora mettiti giù, devo rimettere lo spaventapasseri a posto.»
Dopo averlo riposizionato dov'era, mi nascosi lì vicino, sdraiato tra le piante. Il furgone arrivò e sentii la portiera aprirsi. Le piante di mais si mossero e la donna si palesò nella radura: era bionda, con la coda di cavallo a legare i capelli unti e bruciati dal sole. Indossava jeans, maglietta e un paio di stivali. Gli occhi verdi e severi si sposavano con la faccia spigolosa. Spostò lo spaventapasseri e tornò al furgone.
Stavolta aprì il portellone scorrevole.
«Coraggio, Christian. Non fare storie. Scendi» disse con una voce rauca e profonda come quella di un fumatore incallito.
Di risposta un ringhio animalesco.
«Stai buono, per Dio!»
La donna ritornò trascinandosi dietro un uomo con un'asta da accalappiacani. L'uomo barcollava e camminava a fatica. Era deforme e con il naso consumato fino all'osso. Dalla bocca usciva un liquido scuro, denso come crema di fagioli. Chiazze di capelli erano sparse sulla testa come piccoli cespugli e aveva gli occhi di un alcolizzato in piena cirrosi epatica.
«Vieni, è ora di mangiare.»
Christian rispose con il verso di una bestia ferita. Digrignava e batteva i denti incatramati di liquame nerastro.
La donna, tenendolo a fatica, prese delle chiavi dalla tasca. Si abbassò, aprì il lucchetto e tolse il catenaccio.
Quando alzò la botola, vidi Skip: era sporco di terra e piangeva a dirotto. I suoi capelli biondi erano così pieni di terriccio umido da sembrare tinti. Speravo solo che la donna non si accorgesse della maglietta intorno alla gamba.
«Vi prego, non fatemi male.»
Appena lo vide, Christian balzò in avanti a braccia tese e la donna dovette piantare bene i piedi per non perdere l'equilibrio.
«Ok, ok. Ho capito, maledizione» disse.
Schiacciò il pulsante dell'asta e lo liberò. Gli appoggiò un piede sulla schiena e lo spinse dentro la buca.
Saltai fuori dalle piante per tentare di fermarlo.
La donna appena mi vide tirò fuori un coltello da dietro la schiena.
«Chi diavolo sei tu? Fatti gli affari tuoi e vattene da qui. Questo è il mio terreno!»
Christian era sopra Skip, che urlava e implorava aiuto.
Mi abbassai e lo presi dalla collottola. Lo tirai su a forza e una volta fuori dalla buca gli diedi un calcio sul costato che lo fece rotolare per terra. Ma non sembrò fargli effetto. Si rialzò come se niente fosse.
«Christian ha fame, lo capisci? Si tratta di mio figlio.»
«Non so di cosa stai parlando, ma anche Skip è figlio di qualcuno.»
Christian sputò un po' di bava nera e si mosse verso di me.
Presi il sasso che stavo usando per il lucchetto e glielo tirai su un piede, sicuro di avergli rotto qualche dito. Ma avanzò comunque.
«Ascolta. Lo sceriffo sta arrivando. Che ne dici di mettere giù il coltello e tenere buono tuo figlio? Potrebbero aiutarvi. Basterà spiegargli la situazione.»
«Ma certo, gli dirò che Christian è tornato dalla Cambogia con la febbre a causa di un morso di non so quale insetto del cazzo, che la febbre l'ha ucciso, e che si è risvegliato con una gran fame di cervello umano. Sono sicura che mi riempiranno di comprensione e affetto, soprattutto dopo aver visto chi ho seppellito qui intorno.»
Christian mi saltò di nuovo addosso, riuscii a spingerlo via e a prendere la pietra. Per poco non mi azzannò un avambraccio.
Gli tirai una sassata in faccia, barcollò per un attimo e tornò all'attacco. Mi mise le mani al collo e cominciò a stringere. Avevo la sua faccia a un centimetro dalla mia, con i denti che si aprivano e chiudevano come tagliole, provando ad agguantarmi il naso. Il liquame che gli usciva dalla bocca puzzava di pesce andato a male. Gli diedi una testata, facendolo indietreggiare di un passo.
Gli saltai addosso e riuscii a mettermi sopra di lui a cavalcioni.
Gli spaccai la faccia a colpi di pietra, con tutta la rabbia che avevo in corpo, finché non divenne una poltiglia sanguinolenta.
La donna urlò e cercò di aggredirmi alle spalle, mi alzai di scatto, mi piantò la lama nella gamba. Una fitta tremenda mi fece cadere la pietra e urlare dal dolore. Le bloccai la mano che teneva il coltello e con l'altra le afferrai la gola.
Provò a rigirarlo nella ferita, e io a soffocarla.
A quel punto era una gara a chi avrebbe perso i sensi per primo. Ci inginocchiammo entrambi. Avevo la vista offuscata e le forze cominciavano a mancarmi. Anche lei stava perdendo la presa. Non riusciva più a muovere il coltello. Feci un ultimo sforzo, estrassi la lama dalla ferita e gliela conficcai nello stomaco. Si contorse dal dolore, e dopo qualche spasmo smise di respirare.
Mi trascinai verso la fossa e chiamai Skip, chiedendogli se andava tutto bene.
Saltò fuori e mi aggredì: dalla bocca usciva schiuma scura e la pelle era diventata olivastra. Gli occhi azzurri erano due palle vitree e senz'anima.
Ero sfinito. E anche se aveva un corpo minuto, a fatica riuscivo a tenerlo a bada.
Tolsi il coltello dallo stomaco della donna e glielo conficcai sotto il mento. Si afflosciò come un pupazzo con le batterie scariche e non si mosse più.

Su una cosa la donna aveva ragione: lo sceriffo non credette alla mia storia. Mi caricarono in macchina ammanettato e fui ritenuto colpevole della morte di quelle persone. Anche Suellen non volle darmi retta e mi abbandonò con una telefonata.

Mi hanno buttato in una cella più sudicia del cesso che ho vicino al letto. I detenuti mi vogliono fare le pelle perché ci è andato di mezzo un bambino e in più non mi sento per niente bene. Da quando sono arrivato ho cominciato a sentirmi male. Il cibo della mensa mi fa schifo. E pur avendo fame, ogni cosa che inghiotto, la vomito all'istante. E più vomito, più il cibo mi disgusta.
La ferita sulla gamba è diventata violacea e puzza di rancido. Non mi ero accorto del morso di Skip, fino a ieri. Mi prudeva da morire, così tirai su il pantalone e vidi il segno dei denti.
Da qualche ora comincio a sentire l'odore del sangue dei detenuti e il battito del loro cuore che lo pompa. Ma la cosa che davvero non ha eguali, è il pulsare dei loro cervelli. Me li immagino teneri come formaggio spalmabile e succosi come un frutto maturo. Mi fa dare di matto il pensiero di quanto dev'essere appetitoso.
Ogni volta che ci penso, un fluido nero mi cola dagli angoli della bocca.

3 commenti:

Enrico Teodorani ha detto...

Anch'io mi sono messo a scrivere racconti, ora. Molto meno stressante che sceneggiare fumetti.

vitone ha detto...

Sono contento per te, Enrico. Che genere prediligi?

Doug Roos ha detto...

Creepy. I like it.