sabato 21 dicembre 2013

Frattaglie di Natale.

Mini racconti di Natale che ho scritto per un concorso: cestinati. Buone feste a tutti!


Uno sporco lavoro.

Babbo Natale caricò il sacco sulla slitta di legno marcito.
Si mise al posto di guida e impugnò le redini.
Rudolph si voltò in attesa del segnale: le corna spezzate, al posto del naso color ciliegia il bianco dell'osso.
Allo schiocco della lingua si sollevò e con un' andatura irregolare sorvolò la città rasa al suolo.
Non era rimasto più nessuno.
Tranne quegli esseri che barcollavano e battevano i denti. E che si erano nutriti dell'umanità.
Santa sbuffò e atterrò su un tetto diroccato. Scaricò il sacco, lo mise in spalla e saltò giù.
Si trascinavano in giro per casa, si lamentavano e grattavano le pareti.
Uno si avvicinò con la voglia di assaggiarlo, ma lo allontanò con un calcio sul petto.
«Buoni, ragazzi. Non avete bisogno neanche di scrivermi la letterina.»
Tirò fuori una gamba umana e la buttò a terra. La disossarono come piranha.
«Oh-Oh-Oh. Buon... bah, chi se ne frega» disse con la voce fiacca.
Tornò alla slitta e continuò il suo giro.


Pallettoni di Natale

Sdraiato sul letto a fissare mia moglie.
Ha guadagnato un groviglio di rughe, da quando mi ha conosciuto.
La depressione che mi divora il cervello e lo sostituisce con immagini di morte.
Mi alzo. I piedi nudi sul pavimento freddo. Fuori dalla finestra un manto bianco ricopre tutto.
Prendo il fucile dall'armadio, torno indietro, lo carico e le appoggio la canna sulla testa: i pallettoni la aprono come un pomodoro maturo.
Passo davanti all'albero di Natale e vado nella stanza dei bambini.
Quando esco hanno le facce cancellate e i pigiamini imbrattati di sangue.
Scendo le scale e mi siedo davanti al camino. Appoggio il calcio del fucile a terra e mi ficco la canna ancora calda in bocca.
Un rumore dal comignolo: qualcosa che striscia lungo il condotto. Spuntano un paio di stivali neri e un vestito rosso. Esce fuori con tanto di sacco e barba bianca.
«Oh-Oh-Oh! Buon Natale!» urla.
Con un colpo gli apro il ventre e si accascia con le budella in mano.
«Buon Natale un cazzo, figlio di puttana.»

Gigante vs Salatini

Il gigante appoggiò la gabbietta sul tavolo, aprì e ne uscirono centinaia di esseri umani.
Si trovarono davanti a un albero di Natale che per loro era alto quanto un grattacielo.
«Oggi è la vigilia di Natale, e voglio essere buono. Chi scalerà l'albero e toccherà il puntale, sarà salvo. Siete pronti?» disse.
Un brusio.
«Lo prendo come un sì. Via!»
Come una colonia di formiche si accalcarono uno sopra l'altro nel tentativo di raggiungere la base del tronco e arrampicarsi.
Lui raccoglieva i cadaveri che precipitavano e li sgranocchiava come salatini.
Uno, però, fece finta di essere morto. Colse l'attimo e salì sulla mano, sul braccio e arrivò all'orecchio. Dopo ore raggiunse il cuore, dove lo aspettavano altri fuggitivi.
Sfilò un coltellaccio dalla cinta dei pantaloni e cominciò a tagliare con loro.
Il gigante morì qualche giorno dopo per l'emorragia e i ribelli uscirono vittoriosi dai suoi orifizi.
L'ultima cosa che videro fu la moglie, che li adombrava con la suola della scarpa.

Pallettoni di Natale 

Sdraiato sul letto a fissare mia moglie.
Ha guadagnato un groviglio di rughe, da quando mi ha conosciuto.
La depressione che mi divora il cervello e lo sostituisce con immagini di morte.
Mi alzo. I piedi nudi sul pavimento freddo. Fuori dalla finestra un manto bianco ricopre tutto.
Prendo il fucile dall'armadio, torno indietro, lo carico e le appoggio la canna sulla testa: i pallettoni la aprono come un pomodoro maturo.
Passo davanti all'albero di Natale e vado nella stanza dei bambini.
Quando esco hanno le facce cancellate e i pigiamini imbrattati di sangue.
Scendo le scale e mi siedo davanti al camino. Appoggio il calcio del fucile a terra e mi ficco la canna ancora calda in bocca.
Un rumore dal comignolo: qualcosa che striscia lungo il condotto. Spuntano un paio di stivali neri e un vestito rosso. Esce fuori con tanto di sacco e barba bianca.
«Oh-Oh-Oh! Buon Natale!» urla.
Con un colpo gli apro il ventre e si accascia con le budella in mano.
«Buon Natale un cazzo, figlio di puttana.»

Il vecchio per il nuovo 

 
Stewart, fucile a tracolla e ascia in mano, camminava su un sentiero innevato con suo figlio Jimmy Bob.
La luna piena e un paio di torce come uniche fonti di luce.
«Papà, manca molto al bosco?»
«Tranquillo, Jimmy, ci siamo quasi.»
«Chissà mamma come sarà contenta quando torneremo con l'abete nuovo.»
«Già. Tua madre e io odiamo quello vecchio e vogliamo passare una vigilia di Natale senza quello schifo intorno.»
Arrivarono ai margini del bosco.
«Ti ho già spiegato che siamo in un area protetta, quindi, silenzio e orecchie tese.»
Jimmy annuì.
Si inoltrarono fino a raggiungerne il cuore.
I rami scricchiolavano sotto il peso della neve.
Gli occhi degli animali notturni che sembravano galleggiare nelle tenebre.
Si fermarono davanti a un albero alto un paio di metri.
Stewart passò l'accetta al figlio.
«Coraggio, ragazzo, comincia.»
Jimmy si voltò e iniziò il lavoro.
Lui, intanto, caricò il fucile. Fece attenzione a farlo in sincrono col colpo d'ascia sul tronco.
Glielo puntò alla nuca.
E attese il successivo.

 




lunedì 2 dicembre 2013

Il palloncino azzurro

Trovate questo racconto nell'e-book "Mostri" che potete scaricare gratuitamente su scheletri.com :)
Il concorso è "300 parole per un incubo".

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lunedì 11 novembre 2013

Gommose alla frutta

Nando era impegnato a mantenere un'andatura normale, ma proprio non ci riusciva: barcollava e inciampava, cadeva e si rialzava a fatica. Mise la mano a conchiglia davanti alla bocca e ci alitò dentro. Arricciò il naso e la testa scattò indietro.
“L'etilometro mi prenderebbe a schiaffi” disse.
Arrivò davanti a un portone e premette il pulsante del citofono.
“Sì? Chi è?” rispose una voce femminile assonnata.
“Betty, sei tu? Sono qui per la roba.”
“Ma vai a casa, che è tardi. Io lavoro, la mattina!”
“Ho solo sbagliato a citofonare, signora.”
“E chi se ne frega. Sono stufa marcia del via vai degli amici di quella signorina tatuata. Vi manderei tutti in galera!”
E attaccò.
“Hai bisogno di qualcuno che ti fotta, bella mia: troppo stress”
Avvicinò la faccia alla pulsantiera e col dito seguì i cognomi sulle targhette.
“Come diavolo faceva di cognome?”
Si grattò la barba incolta e premette di nuovo.
“Chi è?” rispose un'altra voce femminile, ma questa era più vivace.
“Betty?”
“Nando! Vieni su, ti apro il portone.”
Entrò e salì in ascensore. Una volta arrivato al terzo piano bussò alla porta e Betty aprì: era in jeans attillati e canottiera, si intravedevano i tatuaggi che aveva su tutto il busto, dal collo in giù, come se sotto avesse un'altra maglietta sporca d'inchiostro. Sigaretta in bocca, rossetto rosso ciliegia e occhiali a montatura grande alla Woody Allen. Nando sorrise.
“Betty la peste” disse.
“In persona, bello mio. Dai, entra, che parliamo un po'.”
L'appartamento era un monolocale grande quanto uno sgabuzzino, la moquette verde consumata, un paio di vecchi mobili scrostati, un comò e il cucinino in un angolo, con il lavello pieno di pentole e piatti sporchi e gli avanzi di cibo che galleggiavano in una brodaglia schiumosa e paglierina. Un'unica finestra, aperta sulla strada, da dove entrava la voce del traffico di Milano del venerdì sera.
In mezzo alla casa un tavolinetto davanti al divano, un posacenere di metallo colmo di mozziconi di sigarette e canne, e tutto il necessario per tirarle su: filtri, cartine, blocco di fumo da un etto, taglierino e accendino.
“Vieni qui, abbracciami” disse Betty.
Nando l'abbracciò e le diede un bacio per guancia.
“Simpatica, la tua vicina. Cosa fa di mestiere, si nutre di carne umana?”
“Chi, la signora Peraglia? No, è solo una stronza che odia la nostra generazione. Pensa che una volta stava sul marciapiede qui davanti in attesa di attraversare e hanno investito un ragazzo davanti ai suoi occhi.”
“E lei che ha fatto?”
Be', lei non ha mosso un dito. Quello era svenuto e con le gambe spezzate, ma lei si è girata dall'altra parte e ha sputato per terra. Ho visto tutto dalla finestra.”
“E che cazzo.”
“La stessa cosa che ho detto io. Comunque, lasciamo stare quella strega e parliamo di cose serie. Ho qualcosa che ti spremerà il cervello e ti farà uscire il succo dalle orecchie, ti chiedo solo di ascoltarmi per un minuto, poi se non ti piace quello che ho da proporti, ci ammazziamo di canne sul divano e buona notte ai suonatori.”
Betty aprì il cassetto del comò, tirò fuori un pacchetto di caramelle e glielo mise in mano.
“Ti presento, la Vulcano.
Nando si grattò la barba. Tirò fuori una caramella dal pacchetto e la sollevò all'altezza degli occhi.
Questa è una gommosa alla frutta. Vuoi sballarmi con gli zuccheri?”
Non farti fregare dall'aspetto. Quelle sono delle bacche particolari che hanno scoperto in Polinesia. Provocano allucinazioni e, come vedi, si possono portare in tasca: a prova di sbirro.”
Sembrano proprio caramelle. Solo tu potevi trovare una roba del genere.”
Se mi chiamano la peste ci sarà un motivo.”
E le hai provate?”
No, ma il tizio che me le ha vendute è uno fidato. Le ho pagate cento euro l'una. Quindi, se vuoi provare...”
Cosa? Cento euro? Ma te sei fuori. Magari ti hanno fregata e ti hanno rifilato delle caramelle per davvero.”
Betty si sistemò gli occhiali sul naso con l'indice e sbuffò.
E va bene, facciamo così: se non sarai soddisfatto ti renderò il centone.”
Se la metti in questi termini, ci sto.”
Nando le diede le cento euro, Betty prese il pacchetto e tirò fuori due vulcano.
Be', alla salute” disse Betty.
Slàinte.”
Le misero in bocca e masticarono.
Ha un gusto aspro” disse Nando.
Già, speriamo bene.”
Quanto dovrebbe metterci a fare effetto?”
Ah, non ne ho idea.”
Aspetta un momento, cos'hai sul braccio?”
Dove? Non vedo niente.”
Ma sì, una fiamma, sul tuo avambraccio.”
Betty scattò in piedi.
Porca puttana, hai ragione! Sto andando a fuoco!”
Guardò Nando.
E anche tu!”
Nando alzò le braccia e prese a correre intorno al divano. Lei lo seguì a ruota.
Aiuto, aiuto! Andiamo a fuoco!” urlavano. Si buttarono per terra e si misero a rotolare. Nando si rialzò, si tolse la giacca, gliela buttò addosso e le diede delle pacche.
Non funziona, non funziona, moriremo bruciati!” urlò.
Poi si alzò e si voltò verso il lavello.
Ho un'idea. Prendiamo le pentole e versiamoci l'acqua addosso” disse.
Presero una pentola a testa e si versarono in testa l'acqua sporca.
Fradici e con gli avanzi di cibo tra i capelli, si guardarono in giro con le pupille grandi come piattini da caffè.
Lo sapevo, non dovevo farlo. La tua roba è troppo forte!
Te l'avevo detto che provocano allucinazioni. Non pensavo fossero così realistiche. Cazzo, sento ancora il calore delle fiamme.”
Nando sembrava non aver ascoltato una parola. Se ne stava immobile e con la bocca aperta.
Ma, mi ascolti?” chiese Betty.
Guardati intorno, peste.”
Betty alzò lo sguardo. Perse l'equilibrio e cadde con le chiappe sul pavimento.
Siamo in un bosco” disse.
Passò la mano sulla moquette.
Non ci credo, non può essere, sto toccando dell'erba. Dove cazzo è finito il mio appartamento?”
Qualcuno bussò alla porta.
I due si fissarono con gli occhi sgranati.
Hai sentito?” disse Nando.
Sì, cos'era?”
La volete finire con questo chiasso? Sono le due del mattino!”
Si sentì.
Dei versi animaleschi, tipo quelli del Sasquatch” disse Betty.
Vuoi dire un Bigfoot? E come diavolo fai a saperlo?”
Ho visto dei documentari e il verso che facevano sentire era simile.”
La porta si aprì e la signora Peraglia entrò: bigodini in testa, maschera per il viso e una vestaglia che sembrava un tendone da circo.
Bene, anche la porta aperta, facciamo entrare cani e porci. Allora, la volete finire con tutto sto casino o devo chiamare i carabinieri?”
Nando e Betty urlarono.
Un mostro con la testa piena d'occhi!” gridò lui.
Sarai bello tu” disse la signora.
Ci divorerà, saltiamo dietro quel cespuglio, presto” disse lei.
Saltarono dietro il divano e si accovacciarono.
Scommetto che siete strafatti. Che schifo. Forza, venite fuori da lì.”
Nando si girò verso la finestra.
Guarda, una grotta. Se riusciamo a entrarci potremmo nasconderci.”
Ottima idea, vado io per prima.”
Comunque non era un Bigfoot. Non esistono”
Non mi sembra il momento giusto per parlarne.”
Ok, vai e buona fortuna.”
Betty prese la rincorsa e saltò giù dalla finestra. Si schiantò sul tettuccio di una Ford e scattò l'allarme.
La signora spalancò la bocca.
Ma...”
Nando la fissò con disprezzo.
Non ci avrai mai, mostro.”
Corse e saltò giù. Finì sopra Betty e l'allarme della macchina si spense.
La signora si affacciò e vide i due cadaveri uno sull'altro e la folla che si radunava intorno.
Stupidi decerebrati, non meritate una lacrima” disse la signora.
Tornò dentro e prima di andare notò sul tavolino il pacchetto di caramelle.
Gommose alla frutta. Le adoro. Tanto a loro non servono più.”
Ne mise una in bocca e la masticò.















martedì 17 settembre 2013

Natale atono.

Ecco, proprio quello che speravo per la mia vita: rovistare nei cestini del McDonald's, nella speranza che qualcuno avesse buttato qualche patatina o un hamburger mangiucchiato. Ma ho sbagliato giorno: è la vigilia di Natale. Sono tutti chiusi nelle loro case o in quelle dei parenti, in questo periodo.
Ho le gambe intirizzite e una voglia matta di scolarmi del whisky.
In un cestino trovo un costume da Babbo Natale sporco di ketchup con tanto di barba finta. Sembrerò un demente, ma almeno mi aiuterà a resistere al freddo. Indosso il costume, puzza di cibo andato a male. Metto la barba; qualcosa mi dà fastidio. Ci trovo dentro un paio di fette di cetriolo. Ne assaggio una, sa di acqua sporca e pelo sintetico.
Esco dal vicolo. La neve copre tutto. Le macchine sembrano dune di polistirolo e l'asfalto è coperto da una poltiglia grigiastra.
Devo trovare un posto al coperto o non passerò la notte.
Giro l'angolo e trovo una scala antincendio. Magari c'è una porta aperta e riesco a buttarmi in un pianerottolo a dormire.
Salgo, ma gli ingressi all'edificio sono tutti chiusi. Arrivo al tetto. Fa un freddo cane. La luna piena affievolita dalle nuvole illumina il paesaggio come un faro nella nebbia. La città deserta; il vento che trasporta echi di canti natalizi dalle case. Lucine che lampeggiano e pupazzi di Babbo Natale che si arrampicano sui balconi. Urlerei una bestemmia, ma un tumore alla laringe mi ha tolto la parola nel 1982.
Mi volto; una canna fumaria vicina a un lucernario. Mi avvicino alle vetrate, tolgo la neve con la manica del costume e guardo giù.
L'appartamento è buio. Le luci dell'albero di Natale lampeggiano e proiettano petali colorati su un divano.
Provo a spostare il blocchetto della finestrella, ma ho le mani gelate non hanno sensibilità.
Ho deciso: entro dalla canna fumaria. O la va o la spacca. Meglio in cella che morto assiderato sopra un tetto. Un letto e pasti gratis. Basta stare attenti al culo. Ho una certa esperienza in materia. Mi calo dentro. Sembro intrappolato in un vestito troppo stretto. Riesco a muovere braccia e gambe di pochi centimetri e a scendere poco alla volta.
Chi cazzo me l'ha fatto fare.
Arrivo alla base del camino. Atterro in una nuvola cinerea. Sguscio fuori. Sembro un soldato in mimetica: chiazzato di rosso e di nero, con striature grigio fumo.
Mi acquatto dietro al divano e rimango immobile, in silenzio: mi viene naturale.
Non sento nulla. L'allarme all'ingresso lampeggia. Devono essere via.
Striscio nel buio, lungo la parete, in cerca dell'interruttore. Sbatto lo stinco contro un tavolino. Spalanco la bocca, mi esce un sibilo: il mio urlo più forte.
Trovo l'interruttore. Accendo.
L'appartamento è spazioso. Il divano è di pelle color crema. Televisore HD da quaranta pollici. Un albero di Natale alto due metri con luci, palle e tutto il resto. Il puntone sfiora il soffitto.
Sotto, i regali.
Devo cercare i pacchetti piccoli. Di solito contengono collane, anelli, orologi. Non mi faccio fregare da cose costose ma ingombranti, rallentano la corsa.
Trovo quattro pacchettini. Uno è stato avvolto con la carta regalo della gioielleria, che stupidi.
In saccoccia.
Agito gli altri. Fanno tintinnii piacevoli all'udito e alle tasche, che adesso sono belle piene.
Sopra un tavolino un piatto con quattro cookies grandi quanto piattini da caffè, e un bicchierone di latte fresco.
Mi avvicino. C'è un biglietto: “Per Babbo Natale”
Mi guardo il vestito e tolgo un po' di sporco con qualche pacca.
Be'. Più o meno, ci siamo, dai.
Mangio tre biscotti con la voracità di un alligatore e bevo il latte al vetro. Un po' mi finisce sulla barba già sudicia.
Passi fuori dalla porta.
«I nonni ti hanno regalato il triciclo. Sei contento, amore?» dice una voce maschile.
«Sì, papà» risponde un bambino.
Cazzo.
Spengo la luce.
Destra, sinistra. Dove vado? Dove?
La chiave entra nella serratura.
«Frank, ricordati di disinserire l'allarme» dice una voce femminile.
«Sì, Madeline, non ricordarmelo tutte le volte.»
Torno nel camino appena in tempo.
La porta si apre. Frank disattiva l'allarme. Torno nel vestito troppo stretto e provo a risalire con la stessa tecnica di prima.
Il rumore dell'interruttore. Hanno acceso la luce. Meglio se resto fermo. Potrebbero sentirmi, o vedere la fuliggine che cade dalla cappa.
«Cosa diavolo è successo? Il pavimento è tutto sporco di fuliggine» dice Madeline.
«Mamma, guarda. Babbo Natale ha mangiato i biscotti e bevuto il latte.»
«Tesoro, porta Nicholas nell'altra stanza. Io chiamo la polizia» dice Frank.
I passi si allontanano e una porta si chiude.
Non sento più niente. Perché non sento più niente? Parlate, dite qualcosa.
«Sei ancora lì dentro?»
Come cazzo fa a saperlo? Non posso rispondere, e anche se potessi non lo farei comunque. Sono muto, mica scemo.
«Ci sono le orme degli scarponi sul pavimento. Ora prenderò il fucile e chiamerò la polizia.»
Merda, merda, merda!
Muovo spalle e gambe e cerco di salire. Alzo la testa. La luna è lontana, come se la guardassi con un cannocchiale.
«Ti sento, sei ancora lì. Adesso ti faccio vedere io» dice.
Un rumore alla base del camino. Ceppi di legno. Mi vuole dare fuoco, il bastardo.
Mi lascio scivolare. Mi scortico le mani e respiro nebbia nera.
Cado sui ceppi fumanti, li scalcio via e esco fuori dal camino.
Tossisco e ho conati di vomito. Alzo le mani.
«Eccoti qua» dice Frank. Un quarantenne imbraccia un fucile a pompa: un colpo, uno spezzatino di muto. Atletico e vestito come un damerino, occhio azzurro, baffo biondo.
E una faccia di merda.
«Cos'hai preso?»
Abbasso le mani per infilarle in tasca.
«Alza le mani, stronzo» intima.
Gesticolo e gli faccio capire che sono muto.
«La lingua corta e la mano lunga, eh? Ok. Vengo io a vedere.»
Si avvicina e mi rovista nelle tasche. Trova i pacchettini.
«Nient'altro?»
Scuoto la testa.
«Sarà meglio per te.»
Un rumore dal camino.
«Avevi un complice?»
No.
«Papà, papà, non fare del male a Babbo Natale» urla Nicholas alle spalle di Frank.
«Nicholas, torna qui» dice Madeline.
Frank si volta.
«Nicholas, torna da tua madre, subito» ordina.
Qualcuno atterra nel camino. Ne esce fuori un ciccione col costume da Babbo Natale.
«Oh, oh, oh» urla.
Frank si volta di scatto e fa partire un colpo. Una rosa di pallettoni spolpa il petto del tizio, che cade come una sagoma cartonata.
Nicholas urla e corre via.
Frank ha la bocca spalancata, tanto da infilarci un tronco.
Gesticolo. Lui si volta.
«Era con te, vero? Dimmi che era con te.»
Agito l'indice. Poi lo tamburello sulla tempia.
«Hai un'idea?»
Gli faccio di sì con la testa. Gli chiedo di darmi il cellulare per scrivere.
Me lo passa e digito: “Ti posso aiutare, ma devi lasciarmi andare.”
«Sei fuori di testa? Non ci penso proprio.»
Allora me ne andrò, e se mi sparerai avrai un duplice omicidio da spiegare alla polizia.”
Faccio per andarmene.
«Ok, ok. Ci sto.»
Hai altre armi in casa?”
«Sì, una pistola.»
Prendila.”
Apre un cassetto del comò e la prende.
Mettila in mano al ciccione e spara un colpo da qualche parte.”
Frank esegue. Mette la pistola in mano al cadavere e spara a un angolo della casa. Colpisce il biglietto “Per Babbo Natale” che avevo trovato sul tavolo e buca la parete. Svolazza e cade per terra. Il buco del proiettile è al centro della “o”. Neanche a farlo apposta.
Ecco fatto. Legittima difesa” digito, e gli ridò il cellulare.
Il morto si era portato anche un grosso sacco. Un altro ladro? E come diavolo ha fatto a passare dalla canna fumaria con quella pancia?
Tiro la barba. È vera.
Naah, non può essere.
Il sacco contiene regali, li aggiungo agli altri sotto l'albero di Frank. Quelli grandi, questa volta. Me li merito.
«Spero che tutti i soldi che ci ricaverai li spenderai in medicine. Stronzo di un muto.»
Vado al tavolo, prendo il cookie rimasto e lo addento. Saluto Frank con il dito medio, chiudo la porta e me la vado a spassare.
Adios.


mercoledì 22 maggio 2013

Christian Z.

Tagliai attraverso i campi di granturco per andare da Suellen. Le piante di mais erano quasi pronte per il raccolto. Mi avevano superato in altezza di almeno due spanne, toccando i due metri. E quando succede, mio padre dice che è quasi ora di passare con la trincia e il trattore. Seguivo il sentiero sterrato sotto il sole cocente di mezzogiorno, con la pelle arrossata e l'afa che mi appiccicava i vestiti addosso.
Mi tolsi la maglietta, la avvolsi intorno alla testa e feci i risvolti ai bermuda.
Il frinio delle cicale viaggiava nell'aria come la puntina di un giradischi rotto, bloccata su un vecchio vinile. I piedi sudati sembravano cresciuti di una misura, da quanto erano gonfi.
Una volta arrivato dalla mia donna, avrei fatto un bel bagno. Mi avrebbe strofinato la schiena con una spugna morbida e l'avrei tirata dentro la vasca per farci l'amore. La sua fattoria era distante, e con la macchina ci vogliono un paio d'ore per raggiungerla. Il sentiero mi permetteva di dimezzare i tempi. Sapevo che avrei sofferto il caldo e gli insetti, ma erano una tortura sopportabile per andare da lei.
A un certo punto notai qualcosa tra le piante. Era un pallone da calcio. Lo raccolsi e mi sporcai le mani di sangue. Mi si rizzarono i peli sulle braccia e l'ansia mi aggredì il cuore, che cominciò a galoppare.
Lo lasciai cadere, e dopo essermi pulito sui bermuda presi il cellulare dalla tasca. Chiamai lo sceriffo, che mi disse di aspettarli lì, che ci avrebbe messo un'ora, e di fare attenzione. Rimesso il telefonino in tasca mi guardai intorno. Delle foglie chiazzate di rosso e alcune piante schiacciate indicavano una direzione ben precisa. Mi addentrai seguendo le tracce di sangue; trovai una scarpa da ginnastica, e subito dopo una bicicletta.
Ci fu un colpo. Come un martello su un'asse di legno.
Ne seguì un altro.
Mi spostai verso quella che credevo la sua direzione, facendomi strada attraverso il granturco. Capii che era quella giusta perché, man mano che mi avvicinavo, il rumore si faceva sempre più forte.
Arrivai in una piccola radura, con uno spaventapasseri piazzato al centro: era alto due metri, con un grosso cappello di tela, camicia a quadrettoni e salopette. La paglia sembrava voler scappare fuori dal vestito. La testa era un sacco di iuta dove avevano attaccato un paio di bottoni per gli occhi e disegnato un ghigno malefico col pennarello.
Un altro colpo lo fece sobbalzare, e quasi mi venne un infarto.
La voce di un bambino proveniva dal sottosuolo: piangeva a dirotto e urlava chiedendo aiuto. Smossi la terra vicino alla base del palo. Lo spaventapasseri non era conficcato nel terreno ma era appoggiato su una base quadrata. Lo spostai e trovai una botola di legno, chiusa da un catenaccio e un grosso lucchetto.
Si aprì quel poco che il catenaccio permetteva.
Una piccola mano sporca di terra uscì fuori; tremava come attraversata da una scossa elettrica.
«Aiutami, ti prego. Mi hanno preso e buttato in questa fossa.»
«Sei ferito? Ho visto del sangue.»
«Mi ha buttato fuori strada col furgone. Ho un taglio alla gamba.»
«Come ti chiami?»
«Skip.»
Mi abbassai per guardare nello spiraglio: due occhi azzurri venati di rosso, gonfi dal pianto ininterrotto e pieni di terrore spiccavano nell'ombra.
«Io sono Alex. Dimmi Skip, da quel taglio stai perdendo molto sangue?» dissi tentando di avere un tono rassicurante.
«Sembra che non sanguini più.»
«Bene. Tieni, ti passo la mia maglietta, legala intorno alla ferita.»
Gliela passai e continuai:
«Sapresti descrivermi chi è stato? Hai parlato di un furgone.»
«Sì, lo guidava una signora bionda. Mi ha affiancato sulla strada e poi ha sterzato all'improvviso. Sono caduto, mi ha preso e portato qui. Ora è andata via. Ha detto che doveva andare a prendere qualcuno.»
«Ascolta, ho chiamato lo sceriffo e arriverà tra poco. Devo andare a cercare qualcosa per rompere il lucchetto.»
«Ho una pietra. Quando mi hanno chiuso qui sotto mi sono messo a scavare la terra e l'ho trovata. Volevo rompere la botola, ma non ci riesco.»
«Puoi passarmela?»
Skip riuscì a darmi il sasso. Cominciai a colpire il lucchetto, ma non ne voleva sapere di cedere.
Durante una pausa per prendere fiato si sentì il motore di un'auto in lontananza.
«È lei. Sta arrivando» disse Skip in agitazione.
«Ascolta, devo nascondermi.»
«No, no, ho paura.»
«Rimarrò nelle vicinanze. Stai tranquillo, non ti succederà niente. Ora mettiti giù, devo rimettere lo spaventapasseri a posto.»
Dopo averlo riposizionato dov'era, mi nascosi lì vicino, sdraiato tra le piante. Il furgone arrivò e sentii la portiera aprirsi. Le piante di mais si mossero e la donna si palesò nella radura: era bionda, con la coda di cavallo a legare i capelli unti e bruciati dal sole. Indossava jeans, maglietta e un paio di stivali. Gli occhi verdi e severi si sposavano con la faccia spigolosa. Spostò lo spaventapasseri e tornò al furgone.
Stavolta aprì il portellone scorrevole.
«Coraggio, Christian. Non fare storie. Scendi» disse con una voce rauca e profonda come quella di un fumatore incallito.
Di risposta un ringhio animalesco.
«Stai buono, per Dio!»
La donna ritornò trascinandosi dietro un uomo con un'asta da accalappiacani. L'uomo barcollava e camminava a fatica. Era deforme e con il naso consumato fino all'osso. Dalla bocca usciva un liquido scuro, denso come crema di fagioli. Chiazze di capelli erano sparse sulla testa come piccoli cespugli e aveva gli occhi di un alcolizzato in piena cirrosi epatica.
«Vieni, è ora di mangiare.»
Christian rispose con il verso di una bestia ferita. Digrignava e batteva i denti incatramati di liquame nerastro.
La donna, tenendolo a fatica, prese delle chiavi dalla tasca. Si abbassò, aprì il lucchetto e tolse il catenaccio.
Quando alzò la botola, vidi Skip: era sporco di terra e piangeva a dirotto. I suoi capelli biondi erano così pieni di terriccio umido da sembrare tinti. Speravo solo che la donna non si accorgesse della maglietta intorno alla gamba.
«Vi prego, non fatemi male.»
Appena lo vide, Christian balzò in avanti a braccia tese e la donna dovette piantare bene i piedi per non perdere l'equilibrio.
«Ok, ok. Ho capito, maledizione» disse.
Schiacciò il pulsante dell'asta e lo liberò. Gli appoggiò un piede sulla schiena e lo spinse dentro la buca.
Saltai fuori dalle piante per tentare di fermarlo.
La donna appena mi vide tirò fuori un coltello da dietro la schiena.
«Chi diavolo sei tu? Fatti gli affari tuoi e vattene da qui. Questo è il mio terreno!»
Christian era sopra Skip, che urlava e implorava aiuto.
Mi abbassai e lo presi dalla collottola. Lo tirai su a forza e una volta fuori dalla buca gli diedi un calcio sul costato che lo fece rotolare per terra. Ma non sembrò fargli effetto. Si rialzò come se niente fosse.
«Christian ha fame, lo capisci? Si tratta di mio figlio.»
«Non so di cosa stai parlando, ma anche Skip è figlio di qualcuno.»
Christian sputò un po' di bava nera e si mosse verso di me.
Presi il sasso che stavo usando per il lucchetto e glielo tirai su un piede, sicuro di avergli rotto qualche dito. Ma avanzò comunque.
«Ascolta. Lo sceriffo sta arrivando. Che ne dici di mettere giù il coltello e tenere buono tuo figlio? Potrebbero aiutarvi. Basterà spiegargli la situazione.»
«Ma certo, gli dirò che Christian è tornato dalla Cambogia con la febbre a causa di un morso di non so quale insetto del cazzo, che la febbre l'ha ucciso, e che si è risvegliato con una gran fame di cervello umano. Sono sicura che mi riempiranno di comprensione e affetto, soprattutto dopo aver visto chi ho seppellito qui intorno.»
Christian mi saltò di nuovo addosso, riuscii a spingerlo via e a prendere la pietra. Per poco non mi azzannò un avambraccio.
Gli tirai una sassata in faccia, barcollò per un attimo e tornò all'attacco. Mi mise le mani al collo e cominciò a stringere. Avevo la sua faccia a un centimetro dalla mia, con i denti che si aprivano e chiudevano come tagliole, provando ad agguantarmi il naso. Il liquame che gli usciva dalla bocca puzzava di pesce andato a male. Gli diedi una testata, facendolo indietreggiare di un passo.
Gli saltai addosso e riuscii a mettermi sopra di lui a cavalcioni.
Gli spaccai la faccia a colpi di pietra, con tutta la rabbia che avevo in corpo, finché non divenne una poltiglia sanguinolenta.
La donna urlò e cercò di aggredirmi alle spalle, mi alzai di scatto, mi piantò la lama nella gamba. Una fitta tremenda mi fece cadere la pietra e urlare dal dolore. Le bloccai la mano che teneva il coltello e con l'altra le afferrai la gola.
Provò a rigirarlo nella ferita, e io a soffocarla.
A quel punto era una gara a chi avrebbe perso i sensi per primo. Ci inginocchiammo entrambi. Avevo la vista offuscata e le forze cominciavano a mancarmi. Anche lei stava perdendo la presa. Non riusciva più a muovere il coltello. Feci un ultimo sforzo, estrassi la lama dalla ferita e gliela conficcai nello stomaco. Si contorse dal dolore, e dopo qualche spasmo smise di respirare.
Mi trascinai verso la fossa e chiamai Skip, chiedendogli se andava tutto bene.
Saltò fuori e mi aggredì: dalla bocca usciva schiuma scura e la pelle era diventata olivastra. Gli occhi azzurri erano due palle vitree e senz'anima.
Ero sfinito. E anche se aveva un corpo minuto, a fatica riuscivo a tenerlo a bada.
Tolsi il coltello dallo stomaco della donna e glielo conficcai sotto il mento. Si afflosciò come un pupazzo con le batterie scariche e non si mosse più.

Su una cosa la donna aveva ragione: lo sceriffo non credette alla mia storia. Mi caricarono in macchina ammanettato e fui ritenuto colpevole della morte di quelle persone. Anche Suellen non volle darmi retta e mi abbandonò con una telefonata.

Mi hanno buttato in una cella più sudicia del cesso che ho vicino al letto. I detenuti mi vogliono fare le pelle perché ci è andato di mezzo un bambino e in più non mi sento per niente bene. Da quando sono arrivato ho cominciato a sentirmi male. Il cibo della mensa mi fa schifo. E pur avendo fame, ogni cosa che inghiotto, la vomito all'istante. E più vomito, più il cibo mi disgusta.
La ferita sulla gamba è diventata violacea e puzza di rancido. Non mi ero accorto del morso di Skip, fino a ieri. Mi prudeva da morire, così tirai su il pantalone e vidi il segno dei denti.
Da qualche ora comincio a sentire l'odore del sangue dei detenuti e il battito del loro cuore che lo pompa. Ma la cosa che davvero non ha eguali, è il pulsare dei loro cervelli. Me li immagino teneri come formaggio spalmabile e succosi come un frutto maturo. Mi fa dare di matto il pensiero di quanto dev'essere appetitoso.
Ogni volta che ci penso, un fluido nero mi cola dagli angoli della bocca.

mercoledì 1 maggio 2013

L'impiccato


1.

Ramirez fermò il cavallo davanti a una quercia alta quanto un fienile: aveva il tronco nodoso e possente e i rami si intrecciavano fino a costruire un tetto di fogliame vasto quanto un campo di granturco.
Da una lettiga di legno, posta nella parte posteriore del cavallo, tirò giù a fatica una cassa di legno verdognola. Poi alzò la testa e si concentrò su un ramo in particolare, dove c'era attaccata una corda, e alla corda un uomo appeso per il collo.
Tirò fuori una cartina, del tabacco e si rollò una sigaretta. Prese un fiammifero dal taschino del gilet di pelle e lo accese strofinandolo contro il tacco dello stivale. Sbuffò il fumo fuori dalle narici e disse:
«Brutta fine, ragazzo.»
Il collo del tizio appeso era ritorto in modo innaturale e aveva un colore violaceo che diventava più intenso vicino al cappio. Era vestito di quattro stracci impolverati: una maglietta di tela bucherellata e zozza, come lerci erano i suoi pantaloni. Indossava un paio di vecchi stivali sporchi di fango. Un mucchietto di mosche gli svolazzava in cerchio sopra la testa creando un' aureola mortifera.
Cominciò a tirare vento; il corpo oscillò e una folata spostò l'odore del cadavere verso Ramirez, che si tolse i guanti di pelle e li mise contro il naso.
«Que huele mal, non mi ci abituerò mai.»
Buttò la sigaretta per terra e la schiacciò sotto la suola dello stivale.
«Vamos, amigo. Se vuoi che ti tiri giù da lì devi collaborare.»
L'impiccato aprì gli occhi: erano acquosi e rossi come due pomodori maturi.
«Chi sei?» disse con un filo di voce.
«Mi chiamo Ramirez. Sono venuto a prenderti, Entiende
«Non credo di aver capito.»
«Ricordi la rapina in banca? Tu che esci di corsa con i sacchi pieni di denaro, la carrozza, i cavalli... Ci sei finito sotto, hai perso i sensi, lo sceriffo ti ha raccolto da terra che eri mezzo andato e senza perdere tempo ti ha messo un cappio nuovo di pacca intorno al collo.»
L'impiccato abbassò la testa quel tanto che bastava per appoggiare il mento sul petto e notare il terreno fangoso lontano dalle suole.
«Sono morto?»
«Tu che dici?»
«Allora perché stiamo avendo questa conversazione?»
«Perché sei dall'altra parte, e ora che hai aperto gli occhi posso finalmente tirarti giù.»
Ramirez andò verso la cassa, aprì il coperchio e ci infilò un braccio. Tirò fuori un revolver, lo puntò verso l'impiccato e sparò appena sopra la sua testa, centrando la corda. L'impiccato cadde come un sacco di patate. Le ossa delle gambe si spezzarono all'impatto e uscirono allo scoperto squarciandogli muscoli e pelle. Urlò e imprecò contro Ramirez, che non si scompose, rimase indifferente e rimettendo la pistola nella cassa disse: «Tzè, sempre la stessa scena.»
L'impiccato perse i sensi.
«E adesso si ricomincia.»
Le fratture si mossero e rientrarono come animate da vita propria e l'impiccato tornò a urlare, le ferite si rimarginarono e in poco tempo tornò come nuovo:
«Che cazzo significa?» disse con le lacrime agli occhi.
«Funziona così da queste parti: qualsiasi parte del corpo tu perda o rompa, ritorna come nuova, testa compresa. Ma il dolore lo senti come lo sentivi da vivo, quindi, ojo
«Potevi dirmelo anche senza farmi spezzare le ossa, cazzo.»
L'impiccato sgranò gli occhi e spalancò la bocca, mostrando i suoi denti color tabacco masticato:
«Sono all'inferno, vero?»
«No, amigo. In quel libraccio ci sono scritte un sacco di fesserie. Opinione personale, senza offesa.
Ti dirò quello che so, e cioè che se supererai una prova dovrai attraversare una passaggio. Avrai una nuova vita, bella o brutta non lo so, credo che sia una scelta casuale, come un tiro di dadi. Magari avrai una vita migliore.»
«Dai, ritentiamo, in fondo mi sento fortunato. Perché non riprovare?» disse l'impiccato facendo oscillare il pezzo della corda come a voler ipnotizzare Ramirez.
Ramirez si limitò a sorridere e disse:
«Bene, possiamo andare, ma prima togliti quel cappio e pulisciti il culo. Quando ti hanno appeso te la sei fatta addosso, e non voglio che la prossima folata di vento mi ficchi un'altra zaffata nelle narici.»
«Sai, avresti bisogno di prenderti un periodo di vacanza.»
«Lo dico sempre anch'io.»
L'impiccato si tolse pantaloni e mutande, si diede una ripulita col fango e un paio di foglie cadute dalla quercia. Una volta pronto, i due si incamminarono, percorrendo quella vasta landa desolata che si perdeva a vista d'occhio. Il cielo aveva il colore di una prugna acerba e il sole aveva una corona di fiamme e sembrava un'entità maligna rosso sangue pronta a divorare quel posto.
«Ancora non mi hai detto come ti chiami, ragazzo» disse Ramirez.
«Leonard Franklin McRody jr.»
«In parole povere?»
«Leo.»
«Ok, Leo. Che ne dici di raccontarmi la tua storia? Così mi faccio un'idea.»
«Te la farò breve: sono nato in una fattoria a Rock Creek. Mio padre gonfiava di botte mia madre ogni sera dopo il saloon, e se non era troppo sbronzo da svenire in una pozza di vomito, la violentava. Quando si stufava di lei se la prendeva con me, sia per le botte che per il resto.
Non avevo neanche quattordici anni quando ho deciso che era ora di finirla; ho ucciso mio padre piantandogli l'ascia per la legna nel cranio, ho abbandonato mia madre e sono scappato. Qualche mese dopo sono venuto a sapere che era impazzita e che si era sparata un colpo in testa. Amava quel figlio di puttana, nonostante tutto quello che ci aveva fatto passare. E odiava me per averlo ammazzato. Ancora adesso non lo capisco.»
«Posso dirti che ne ho sentite tante da quando sono qui, e la tua non è una delle peggiori. La vita è fatta anche di queste cose, Leo.»
«La vita mi ha fatto diventare un bastardo. La responsabilità è solo sua.»

2.


Camminarono a lungo e Ramirez spiegò a Leo che l'imbrunire, in quel posto, non esisteva. C'erano sempre il sole rosso sangue e il cielo verdognolo a mantenere stazionaria quella dimensione eterea.
Arrivarono davanti a una montagna dalla forma strana: un'onda di roccia che sembrava non finire mai, con la cima che si nascondeva in una foschia violacea, dove all'interno si intravedevano delle scariche elettriche. La montagna brontolava come lo stomaco vuoto di un affamato.
«Bene, ci siamo» disse Ramirez.
«Dimmi che non devo scalarla.»
«Devi scalarla.»
«Mi rifiuto.»
«Non puoi rifiutarti, amigo. Te ne pentiresti. Verrebbe a trovarti qualcuno che non vorresti mai incontrare. Non sarebbe bello, credimi.»
Leo guardò ancora la parete:
«Cazzo, ci metterò una vita.»
«Tranquilo. Hai tutta l'eternità per farcela.»
«Il tuo accento spagnolo comincia a darmi sui nervi.»
Ramirez sorrise e disse:
«Troverai dei ripari sparsi sulla parete rocciosa. Così potrai riposarti e rigenerarti nel caso fossi ferito. Il cibo non ti serve più. Qui non si patisce la fame.»
Leo sbuffò, imprecò e si voltò, dirigendosi verso le rocce.
«Ah, Leo?»
«Che vuoi ancora?»
«Vaya con Dios!»
Leo gli mostrò il dito medio, poi si avvicinò alla parete rocciosa e si aggrappò a un appiglio che gli sembrava sicuro.
3.


Salì un bel pezzo, bracciata dopo bracciata, ma anche se stava attento a dove e come metteva mani e piedi, si scorticavano e tagliuzzavano dappertutto, come attaccati da uno sciame di lamette.
Dopo qualche ora Leo trovò uno dei ripari scavati nella roccia abbastanza grande da potercisi sedere e restare al coperto.
Si sdraiò appena fuori il riparo per prendere fiato e guardò in alto, la foschia violacea era ancora lontana. Molto lontana.
Si spostò sul ciglio della parete rocciosa e buttò un'occhiata giù.
Aveva percorso un bel po' di strada, ma non abbastanza da non distinguere più Ramirez, che intanto si era acceso un fuoco, aveva ficcato qualcosa in un pezzo di legno e lo passava sopra le fiamme:
«Hola, gringo! Mi sto preparando una salsiccia. In questo mondo non esiste la fame, ma lo sfizio te lo puoi togliere lo stesso» urlò.
«Certo che da quella cassa ci tira fuori proprio di tutto» disse tra sé Leo.
Si sdraiò di nuovo e si mise tranquillo, aspettando che le ferite si rimarginassero.
Nel dormiveglia sentì un leggero picchiettio.
Un paio di gocce gli caddero vicino, Leo aprì gli occhi e vide che erano nere come inchiostro. Si alzò, uscì dal riparo e puntò gli occhi al cielo, che si era oscurato facendo piombare quel posto nelle tenebre. La pioggia divenne più intensa e sembrava che le nuvole stessero scaricando petrolio.
«Pioggia nera... mi toccherà stare qui per un bel pezzo.»
Si accorse troppo tardi che quella pioggia aveva un brutto effetto su di lui. Appena venne toccato iniziò a contorcersi e a urlare, sbatté la testa, mise male un piede, scivolò e iniziò a precipitare. Rimbalzò sulle rocce un paio di volte prima di schiantarsi al suolo.
4.

Ramirez arrivò vicino a lui con un telo cerato. Leo era squartato all'altezza dello stomaco, le viscere erano schizzate fuori come conigli da una tana affumicata, sparpagliandosi qua e là nelle vicinanze del corpo. Aprì il telo e lo coprì.
«Menomale che su di me non fa effetto. Al massimo devo farmi un bagno. Dev'essere molto doloroso.»
Poi notò una parte di budella che fuoriusciva dal telo, sollevò un lembo e la spostò con lo stivale, come farebbe una casalinga svogliata mettendo la polvere sotto il tappeto.
«Non ci rimane che aspettare.»
La pioggia nera smise di cadere, e il terreno che prima sembrava un mare di pece tornò fangoso nel giro di pochi minuti. L'assorbì come una spugna.
Ramirez accese un altro fuoco, prese dalla cassa una spazzola e del lucido da scarpe, si sedette e cominciò a pulire lo stivale sporco di sangue.
«Esta mierda, si fa sempre fatica a toglierla. Li avevo appena puliti dalla pioggia.»
Quando ebbe quasi finito di spazzolare, notò dei movimenti sotto il telo, urla strazianti li seguirono.
«El gringo sta tornando.»
Leo ne uscì fuori integro. Aveva la faccia di chi era appena precipitato da una parete rocciosa.
«Perché cazzo non mi hai detto di quella merda nera?»
«Lo siento, amigo. Ma ho delle regole da seguire, e se non lo faccio vengo punito. Ora cerca di calmarti e siediti un po' vicino al fuoco.»
Leo tirò un calcio a un sasso lì vicino e sputò per terra. Quando riuscì a ritrovare il controllo diede ascolto a Ramirez e si sedette vicino a lui.
«Prestami quel telo.»
«Ok, è tuo» rispose Ramirez, alzando le mani come in segno di resa.
Leo lo prese e disse:
«Ce l'hai un coltello, in quella cassa?»
Ramirez sorrise, si alzò e andò alla cassa. Infilò il braccio, tirò fuori un coltello e lo passò a Leo.
«Non hai paura che te lo infili da qualche parte?»
«Non sarà la mia morte a toglierti da questa situazione. Tienilo pure, se pensi che possa esserti utile.»
Leo prese il telo e cominciò a lavorarlo col coltello. Fece un buco in mezzo per la testa, e dallo scarto ne ricavò un cappuccio. Una volta indossati, prese uno spago - altra gentile concessione di Ramirez - , se lo passò intorno alla vita e ci infilò il coltello.
Si avvicinò alla parete di roccia e ricominciò la scalata.

5.


Passarono un paio di mesi e la pioggia nera, fortunatamente per Leo, non cadde più.
Raggiunse la foschia violacea che aveva la barba lunga quanto quella di Mosè, ci si immerse e si ritrovò in mezzo a scariche elettriche e raffiche di vento capaci di sradicare un albero. Si aggrappò alle rocce e tentò di proseguire. Con la coda dell'occhio intravide una grotta non molto distante dove ripararsi. Doveva salire di un paio di bracciate, prima di essere al sicuro. Cercò di raggiungere un appiglio lì vicino. Le scariche elettriche lo sfiorarono un paio di volte. Ficcò il piede in un piccolo incavo e si spinse in alto, riuscendo ad aggrapparsi con entrambe le mani.
«Ancora uno sforzo.»
Si appese al ciglio della grotta, e cominciò a muovere i piedi in cerca di qualche punto adatto a tirarsi su un'ultima volta.
Una scarica lo centrò in pieno, Leo perse la presa e una raffica di vento lo portò via. Sembrò come se la foschia lo avesse sputato fuori come cibo indigesto.
Precipitò a lungo, e la montagna lo fece a brandelli. Perse quasi tutto per strada.
Ramirez era sdraiato a leggere un libro. Sentì uno strano rumore, come una grossa pietra caduta lì vicino. Aprì gli occhi e vide che si trattava di un piede mezzo abbrustolito.
«Questa volta ci vorrà un bel po', prima di rivederti.


6.


Nei giorni seguenti, i pezzi di Leo sparsi sulla parete rocciosa, cominciarono a scivolare verso il basso, andando a ricongiungersi lentamente al piede abbrustolito.
Quando Leo tornò integro, si sedette di nuovo vicino a Ramirez.
«Questa volta non ho sentito praticamente niente. Né all'andata, né al ritorno.»
«Ci credo, sarai morto al primo impatto e quando il corpo si smembra in quel modo, l'ultima a tornare in sede e a riformarsi è la testa, anzi, il cervello. Non fa in tempo a concepire il dolore. Entiende
«Non ho capito un bel niente, ma sarà come dici tu. Prima la pioggia nera, e ora quella nuvola viola del cazzo, con le sue scariche elettriche e la bufera. Non posso farcela. Nemmeno tra un milione di anni.» Poi guardò la cassa di Ramirez.
«Ho una domanda per te. Quanta roba hai lì dentro?»
Ramirez si fece una sana risata, poi disse:
«No, gringo, in quella cassa non c'è niente, a meno che non lo visualizzi.»
«Tipo?»
«Sta a guardare.»
Ramirez si alzò in piedi e si avvicinò alla cassa.
«Ora penserò a una gallina.»
Aprì il coperchio, infilò il braccio e tirò fuori una gallina. Leo applaudì: «Bravo. E, dì un po', qualcosa da bere?»
Ramirez ci pensò su, annuì e infilò di nuovo il braccio.
Tirò fuori una bottiglia di whisky.
«Oh, oh! Finalmente un po' di divertimento!»
«Mal di testa assicurato, gringo. Salud!» disse Ramirez, che tracannò una bella sorsata e passò la bottiglia.
I due continuarono a bere fino ad ubriacarsi. Finirono la bottiglia e Ramirez ne pescò un'altra dalla cassa. Arrivati a metà Ramirez biascicò qualcosa:
«Gringo, ti posso dire una cosa?»
Leo fece ciondolare la testa:
«Si, certo, tutto quello che vuoi»
«Non dovresti farlo...» disse Ramirez bloccandosi col dito indice puntato in alto. Non aprì bocca per qualche secondo.
«Hey, amico, sveglia.» disse Leo mollandogli uno schiaffo. Ramirez cadde di schiena e svenne.
Leo si alzò in piedi e barcollando si avvicinò a lui.
«Mi spiace, amigo.»
Scambiò i vestiti, e infilò nella cinta il coltello che gli aveva dato, si diresse verso la cassa, vomitò in un angolo, aprì il coperchio e urlò con tutto il fiato che aveva in gola:
«Mi rifiuto di rimanere in questo cazzo di posto a scalare una fottuta montagna. Mi avete sentito?»
La terra cominciò a tremare. Leo si infilò nella cassa e abbassò il coperchio quel tanto che bastava per poter sbirciare. Ci fu un'esplosione simile a una miniera imbottita di tritolo che la fece sobbalzare.
Un'altra la seguì, ma questa volta più vicina.
Una nebbia densa crebbe fino a impadronirsi di tutto l'ambiente. Leo non riusciva a vedere nulla. L'ultima esplosione fu la più vicina e violenta.
La cassa saltò letteralmente in aria sballottandolo e facendolo vomitare di nuovo. Quando atterrò, sembrava dovesse frantumarsi all'impatto.
Superato l'intontimento sollevò il coperchio per dare un'occhiata.
Davanti si ritrovò un piede grande quanto un battello a vapore. Sollevò lo sguardo e seguì il percorso delle gambe. Erano muscolose e si perdevano a vista d'occhio come le vallate del Texas. I peli sembravano grosse sbarre d'acciaio e sotto le unghie potevano starci tutte le cento anime di Rock Creek.
La foschia cominciò a diradarsi e quando il cielo tornò limpido, Leo vide il resto del gigante: sarebbe stato capace di scalare quella montagna in un attimo. Il suo cranio era ricoperto di occhi, il naso sembrava un covone di fieno color carne e aveva denti aguzzi e sporgenti. Raccolse Ramirez da terra e se lo mise tra i denti: lo tritò come carne essiccata. I bulbi oculari ruotarono in tutte le direzioni, annusò in giro un paio di volte, si voltò e se ne andò.
Quando le vibrazioni del terreno si affievolirono, Leo uscì e diede una rapida occhiata in giro. Sembrava tornato tutto tranquillo.
«Finalmente non dovrò più scalare quella maledetta montagna» disse avvicinandosi al cavallo di Ramirez. Caricò la cassa sulla lettiga, salì in groppa al cavallo e accarezzandogli la criniera disse:
«Abbiamo tutto quello che ci serve per sopravvivere fino a quando non troveremo una via d'uscita, amico.»
Diede un paio di colpetti con i talloni e si rimise in viaggio.
Girovagò a lungo senza incontrare anima viva o trapassata che fosse. Decise di accamparsi e riposare qualche ora. Scese da cavallo e tirò giù la cassa.
«Ha detto che bisogna visualizzarlo.»
Chiuse gli occhi:
«Whisky, del dannato whisky.»
Aprì il coperchio e infilò il braccio. Niente.
«Forse devo iniziare con qualcosa di più semplice. Una salsiccia. Più facile di così...»
Chiuse gli occhi. Infilò il braccio. Nulla.
Tentò ancora e ancora, ma il risultato fu sempre lo stesso.
Prese a calci la cassa e imprecò verso tutto e tutti. Quando si calmò decise di rimettersi in marcia.
Il tempo era così lungo e senza punti di riferimento da sembrare congelato. L'unico compagno per due chiacchiere era il cavallo, che non era certo uno con la lingua lunga. Sbuffava e nitriva, qualche volta. Niente di più.

Un ciuffo d'erba.
Non vedeva un ciuffo d'erba da quando era sceso da quell'albero.
Un fiore.
«Qualcosa sta cambiando, vecchio mio» disse al cavallo.
Salì in cima a una collina e dall'altra parte si trovò davanti a uno scenario da giardino dell'Eden: alberi da frutto e ruscelli d'acqua, uccelli che cinguettavano e qualche animale al pascolo.
Si inoltrò in quel territorio col sorriso stampato in faccia.
«Ci siamo, bello. Me lo sento. Si torna a casa.»
Si fermò al ruscello insieme al cavallo per darsi una rinfrescata. Quando alzò la testa notò un comignolo fumante oltre una radura. Si mise in piedi e vide una casetta di legno con una paio di finestre e un giardino fiorito. Legò il cavallo a un tronco d'albero, si avvicinò con cautela e sbirciò attraverso il vetro di una finestra. Non vide nulla. Si avvicinò alla porta, prese il coltello di Ramirez e nascose la mano dietro la schiena. Con l'altra bussò.
«C'è nessuno in casa?»
Quando la porta si aprì si ritrovò davanti una bambina: aveva una treccia bionda che le arrivava ai talloni e due occhi azzurri come il cielo estivo. Indossava un grembiule bianco e un'ampia gonna a campana. Stava sgranocchiando una pannocchia.
«Benvenuto, Leo, accomodati» disse con una voce dolce e leggera.
«Come fai a conoscermi?»
«Diciamo che sono il datore di lavoro di Ramirez.»
Leo indietreggiò subito di un passo:
«Non c'entro niente. Un gigante con la testa piena di occhi è arrivato e se lo è divorato.»
La bambina diede un morso alla pannocchia arrostita:
«Questo è un modo di vedere le cose. Un altro modo è che tu hai voluto fregarlo con un paio di bottiglie di whisky e lo scambio d'abito. Poi ti sei nascosto nella cassa e hai detto di non voler affrontare la prova.»
Leo tirò fuori il coltello e glielo puntò contro.
«Dimmi la verità, pensi davvero di potermi fare qualcosa con quello stecchino? Sai che qui niente è come sembra. La bambina che hai davanti è solo un modo per non farti spaventare. Se dovessi mostrarmi per quello che sono, non riusciresti a guardarmi in faccia, né a farti uscire un fiato. Metti giù il coltello e vieni dentro. Dobbiamo parlare.»
Leo esitò:
«Mi ucciderai?»
«Voglio ricordarti che sei già morto» rispose lei; si voltò ed entrò in casa.
Leo si decise e la seguì. Si accomodarono a un tavolo di legno grezzo con sopra qualche pannocchia.
«Ne vuoi una?»
Leo annuì. La bambina ne prese una e l'avvicinò al fuoco del caminetto. Quando la pannocchia cominciò ad annerirsi gliela diede.
«Bruciacchiate sono ancora più buone» disse mentre si sedeva di fronte.
«Allora, Leo. Voglio essere chiara fin da subito. Non hai fatto una gran furbata facendo fuori Ramirez. Dì un po', sei riuscito a tirare fuori qualcosa dalla cassa?»
«No, niente di niente.»
«E il passaggio, l'hai trovato?»
«Se sono ancora qui...» rispose Leo. Diede il primo morso alla pannocchia, alzò lo sguardo e fece un lungo sospiro.
«Sembra il cibo più buono che tu abbia mai mangiato, non è vero? E non si tratta di fame, come ben sai, ma del ritrovamento di un sapore che ti collega alla tua vita passata, per quanto brutta possa essere stata.»
Lui non rispose e addentò di nuovo la pannocchia riempiendosi la bocca di mais.
«Vuoi sapere perché non hai trovato il passaggio?»
Leo smise di masticare:
«Perché non esiste più alcun passaggio. Lo hai distrutto tu, nel momento in cui hai fatto fuori Ramirez.»
Leo spalancò la bocca e del mais cadde sul tavolo, come se avesse perso qualche dente.
«Eh già, Leo. Ricordi cosa ti disse? - Mi basta visualizzare -. E se tu avessi superato la prova, avrebbe visualizzato il passaggio, che poi è la cassa stessa, saresti entrato dentro e saresti tornato nel tuo mondo come nuovo nascituro pieno di sogni e speranze.»
Leo rimase impalato, con la poltiglia gialla in bocca e lo sguardo lucido.
«Ramirez ti aveva anche avvertito. Ti aveva detto che la sua morte non ti sarebbe servita a niente. Starai qui per sempre, Leo. Vagherai in eterno in questo mondo.»
La bambina schioccò le dita e Leo si ritrovò nudo e senza cavallo in mezzo al deserto fangoso, col sole rosso sangue e il cielo color prugna acerba. Si guardò le mani: la pannocchia era sparita e al suo posto c'era un pezzo di corteccia. Sputò quella che aveva in bocca e scoppiò a piangere. Cadde in ginocchio imprecando contro il mondo intero.
Un tuono smorzò le sue urla deliranti e gocce nere caddero davanti ai suoi occhi.
 COLONNA SONORA: