Fabio
aveva quasi completato i preparativi per la festa a casa sua. Era
passato dal supermarket per prendere snack, alcool, bicchieri e
piatti di plastica. Gli rimaneva solo una cosa da fare. Doveva
fermarsi in farmacia per prendere dei medicinali che aveva finito.
Era
un bel giorno di primavera. Il Sole scaldava il giusto e il cielo era
di un blu intenso. La città era nel pieno della vita: le persone che
camminavano in ogni direzione, i rumori del traffico, le ragazze che
cominciavano a indossare roba più leggera. Fabio entrò nel parco
della città. Attraversandolo, avrebbe accorciato di parecchio il
tragitto per la farmacia. La gente di solito tende ad evitare quella
strada, perché era frequentata da spacciatori e puttane. Ma a lui
non preoccupava. Ci era nato e vissuto in quell'ambiente e sapeva
come comportarsi:
«Mi
faccio i cazzi miei. Basta camminare spediti e non guardare nessuno
troppo a lungo» disse tra sé e sé.
Le
prime persone che incontrò furono due prostitute moldave; sembravano
truccate come se qualcuno gli avesse sparato il trucco in faccia con
un fucile a pompa. Erano sedute su delle sedie di plastica, mentre
fumavano una sigaretta, a gambe larghe. Non portavano le mutande.
«Hey,
bello. Lo vuoi un pompino?» chiese una di loro.
Fabio
fece di no con la testa e proseguì per la sua strada. Altre due
mignotte, più avanti, questa volta nessuna disse niente, si
limitarono a guardarlo e a sorridere ammiccanti. Subito dopo, un
tizio magro come una cannuccia e col viso spigoloso, comparve da
dietro un albero. Indossava vestiti più grandi di lui di almeno due
taglie. Gli si fece incontro con una camminata veloce. Passò accanto
a Fabio e disse: «Fumo?»
Fabio
rispose di no e continuò a camminare. Lo spacciatore fece la stessa
cosa. A metà strada vide avvicinarsi la sagoma di un tizio grande
come un armadio. Quando fu più vicino riuscì a riconoscerlo. Era
Peppe, detto “Il becchino”. Non esattamente una brava persona. A
scuola lo chiamavano “il becchino” perché chi lo incontrava
andava verso morte certa. Era un giocatore di Rugby, una seconda
linea, per l'esattezza. E di solito, quelli che giocano in seconda
linea, sono gli energumeni della squadra. Tori da combattimento
agonistico. Peppe era scappato dal recinto. Era grosso e cattivo, e
sapeva di esserlo. Amava pestare le persone per i motivi più futili.
Bastava non andargli a genio o che avesse una giornata storta per
sfogarsi con chiunque. Una volta mandò un tizio in ospedale. Gli
aveva chiesto l'ora, il tizio non aveva l'orologio; Peppe si
incazzò di brutto e cominciò a riempirlo di pugni, fino a lasciarlo
per terra svenuto e con un paio di denti in meno.
«Vai
dritto per la tua strada. Non guardarlo» si disse Fabio. Il cuore
cominciò a martellargli nel petto e le gambe all'improvviso
divennero gelatinose. I due si incrociarono, e Peppe non disse
niente. Fabio, dopo essergli passato a fianco, cercò di allungare la
falcata, così da allontanarsi il più in fretta possibile.
«Oh,
tu» sentì Fabio alle sue spalle, e la sua fronte cominciò a
imperlarsi di sudore freddo.
«Ce
l'ho con te, cazzone. Che hai, sei sordo?» disse Peppe.
Fabio
si fermò e si voltò:
«Scusami,
non avevo sentito» disse.
«Ce
l'hai una sigaretta?»
«Non
fumo, mi dispiace»
«Be',
io ho una gran voglia di sigaretta. Perché non mi dai cinque euro,
così mi compro un pacchetto»
«Non
ho soldi con me»
«Secondo
me ce li hai, invece. Sai chi sono?»
«Sì,
sei il becchino»
«Esatto,
sono quel figlio di puttana del becchino. Ora rispondi a un'altra
domanda. Vuoi che ti faccia male?»
«No»
«Bene.
Tira fuori quei cazzo di soldi, allora. Sto cominciando a perdere la
pazienza»
Fabio
frugò nelle tasche dei pantaloni e tirò fuori una banconota da
cinque euro. Peppe la prese. Poi, all'improvviso, sferrò un destro
allo stomaco di Fabio, che cadde a terra in ginocchio, piegato in
due, senza fiato. Il becchino alzò di nuovo il destro e gli scaricò
una sassata in faccia dall'alto verso il basso. Fabio cadde per terra
con il volto che scottava come il fuoco e che pulsava di dolore, e
ancora non era finita. Il becchino gli diede due calci alle costole,
poi gli alzò la testa tirandola su per i capelli e gli mollo un
ceffone pesante quanto un ferro da stiro.
«Lo
vedi? Mi hai fatto perdere tempo, mi hai mentito e mi hai fatto
incazzare. La prossima volta te le do sul serio, stupido coglione»
disse Peppe, e se ne andò. Fabio rimase giù per un po'. Quando
cominciò a riprendersi vide una fontanella, lì vicino. Si avvicinò
e si diede una sciacquata. Riempì la bocca d'acqua fresca, la agitò
tra le guance e sputò sangue. I tagli all'interno gli facevano un
male cane, come se avesse masticato lamette. Dolorante riprese il suo
cammino in direzione della farmacia.
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