Tagliai attraverso i
campi di granturco per andare da Suellen. Le piante di mais erano
quasi pronte per il raccolto. Mi avevano superato in altezza di
almeno due spanne, toccando i due metri. E quando succede, mio padre
dice che è quasi ora di passare con la trincia e il trattore.
Seguivo il sentiero sterrato sotto il sole cocente di mezzogiorno,
con la pelle arrossata e l'afa che mi appiccicava i vestiti addosso.
Mi tolsi la
maglietta, la avvolsi intorno alla testa e feci i risvolti ai
bermuda.
Il frinio delle
cicale viaggiava nell'aria come la puntina di un giradischi rotto,
bloccata su un vecchio vinile. I piedi sudati sembravano cresciuti di
una misura, da quanto erano gonfi.
Una volta arrivato
dalla mia donna, avrei fatto un bel bagno. Mi avrebbe strofinato la
schiena con una spugna morbida e l'avrei tirata dentro la vasca per
farci l'amore. La sua fattoria era distante, e con la macchina ci
vogliono un paio d'ore per raggiungerla. Il sentiero mi permetteva di
dimezzare i tempi. Sapevo che avrei sofferto il caldo e gli insetti,
ma erano una tortura sopportabile per andare da lei.
A un certo punto
notai qualcosa tra le piante. Era un pallone da calcio. Lo raccolsi e
mi sporcai le mani di sangue. Mi si rizzarono i peli sulle braccia e
l'ansia mi aggredì il cuore, che cominciò a galoppare.
Lo lasciai cadere, e
dopo essermi pulito sui bermuda presi il cellulare dalla tasca.
Chiamai lo sceriffo, che mi disse di aspettarli lì, che ci avrebbe
messo un'ora, e di fare attenzione. Rimesso il telefonino in tasca mi
guardai intorno. Delle foglie chiazzate di rosso e alcune piante
schiacciate indicavano una direzione ben precisa. Mi addentrai
seguendo le tracce di sangue; trovai una scarpa da ginnastica, e
subito dopo una bicicletta.
Ci fu un colpo. Come
un martello su un'asse di legno.
Ne seguì un altro.
Mi spostai verso
quella che credevo la sua direzione, facendomi strada attraverso il
granturco. Capii che era quella giusta perché, man mano che mi
avvicinavo, il rumore si faceva sempre più forte.
Arrivai in una
piccola radura, con uno spaventapasseri piazzato al centro: era alto
due metri, con un grosso cappello di tela, camicia a quadrettoni e
salopette. La paglia sembrava voler scappare fuori dal vestito. La
testa era un sacco di iuta dove avevano attaccato un paio di bottoni
per gli occhi e disegnato un ghigno malefico col pennarello.
Un altro colpo lo
fece sobbalzare, e quasi mi venne un infarto.
La voce di un
bambino proveniva dal sottosuolo: piangeva a dirotto e urlava
chiedendo aiuto. Smossi la terra vicino alla base del palo. Lo
spaventapasseri non era conficcato nel terreno ma era appoggiato su
una base quadrata. Lo spostai e
trovai una botola di legno, chiusa da un catenaccio e un grosso
lucchetto.
Si
aprì quel poco che il catenaccio permetteva.
Una
piccola mano sporca di terra uscì fuori; tremava come attraversata
da una scossa elettrica.
«Aiutami,
ti prego. Mi hanno preso e buttato in questa fossa.»
«Sei
ferito? Ho visto del sangue.»
«Mi
ha buttato fuori strada col furgone. Ho un taglio alla gamba.»
«Come
ti chiami?»
«Skip.»
Mi
abbassai per guardare nello spiraglio: due occhi azzurri venati di
rosso, gonfi dal pianto ininterrotto e pieni di terrore spiccavano
nell'ombra.
«Io
sono Alex. Dimmi Skip, da quel taglio stai perdendo molto sangue?»
dissi tentando di avere un tono rassicurante.
«Sembra
che non sanguini più.»
«Bene.
Tieni, ti passo la mia maglietta, legala intorno alla ferita.»
Gliela
passai e continuai:
«Sapresti
descrivermi chi è stato? Hai parlato di un furgone.»
«Sì,
lo guidava una signora bionda. Mi ha affiancato sulla strada e poi ha
sterzato all'improvviso. Sono caduto, mi ha preso e portato qui. Ora
è andata via. Ha detto che doveva andare a prendere qualcuno.»
«Ascolta,
ho chiamato lo sceriffo e arriverà tra poco. Devo andare a cercare
qualcosa per rompere il lucchetto.»
«Ho
una pietra. Quando mi hanno chiuso qui sotto mi sono messo a scavare
la terra e l'ho trovata. Volevo rompere la botola, ma non ci riesco.»
«Puoi
passarmela?»
Skip
riuscì a darmi il sasso. Cominciai a colpire il lucchetto, ma non ne
voleva sapere di cedere.
Durante
una pausa per prendere fiato si sentì il motore di un'auto in
lontananza.
«È
lei. Sta arrivando» disse Skip in agitazione.
«Ascolta,
devo nascondermi.»
«No,
no, ho paura.»
«Rimarrò
nelle vicinanze. Stai tranquillo, non ti succederà niente. Ora
mettiti giù, devo rimettere lo spaventapasseri a posto.»
Dopo
averlo riposizionato dov'era, mi nascosi lì vicino, sdraiato tra le
piante. Il furgone arrivò e sentii la portiera aprirsi. Le piante di
mais si mossero e la donna si palesò nella radura: era bionda, con
la coda di cavallo a legare i capelli unti e bruciati dal sole.
Indossava jeans, maglietta e un paio di stivali. Gli occhi verdi e
severi si sposavano con la faccia spigolosa. Spostò lo
spaventapasseri e tornò al furgone.
Stavolta
aprì il portellone scorrevole.
«Coraggio,
Christian. Non fare storie. Scendi» disse con una voce rauca e
profonda come quella di un fumatore incallito.
Di
risposta un ringhio animalesco.
«Stai
buono, per Dio!»
La
donna ritornò trascinandosi dietro un uomo con un'asta da
accalappiacani. L'uomo barcollava e camminava a fatica. Era deforme e
con il naso consumato fino all'osso. Dalla bocca usciva un liquido
scuro, denso come crema di fagioli. Chiazze di capelli erano sparse
sulla testa come piccoli cespugli e aveva gli occhi di un alcolizzato
in piena cirrosi epatica.
«Vieni,
è ora di mangiare.»
Christian
rispose con il verso di una bestia ferita. Digrignava e batteva i
denti incatramati di liquame nerastro.
La
donna, tenendolo a fatica, prese delle chiavi dalla tasca. Si
abbassò, aprì il lucchetto e tolse il catenaccio.
Quando
alzò la botola, vidi Skip: era sporco di terra e piangeva a dirotto.
I suoi capelli biondi erano così pieni di terriccio umido da
sembrare tinti. Speravo solo che la donna non si accorgesse della
maglietta intorno alla gamba.
«Vi
prego, non fatemi male.»
Appena
lo vide, Christian balzò in avanti a braccia tese e la donna dovette
piantare bene i piedi per non perdere l'equilibrio.
«Ok,
ok. Ho capito, maledizione» disse.
Schiacciò
il pulsante dell'asta e lo liberò. Gli appoggiò un piede sulla
schiena e lo spinse dentro la buca.
Saltai
fuori dalle piante per tentare di fermarlo.
La
donna appena mi vide tirò fuori un coltello da dietro la schiena.
«Chi
diavolo sei tu? Fatti gli affari tuoi e vattene da qui. Questo è il
mio terreno!»
Christian
era sopra Skip, che urlava e implorava aiuto.
Mi
abbassai e lo presi dalla collottola. Lo tirai su a forza e una volta
fuori dalla buca gli diedi un calcio sul costato che lo fece rotolare
per terra. Ma non sembrò fargli effetto. Si rialzò come se niente
fosse.
«Christian
ha fame, lo capisci? Si tratta di mio figlio.»
«Non
so di cosa stai parlando, ma anche Skip è figlio di qualcuno.»
Christian
sputò un po' di bava nera e si mosse verso di me.
Presi
il sasso che stavo usando per il lucchetto e glielo tirai su un
piede, sicuro di avergli rotto qualche dito. Ma avanzò comunque.
«Ascolta.
Lo sceriffo sta arrivando. Che ne dici di mettere giù il coltello e
tenere buono tuo figlio? Potrebbero aiutarvi. Basterà spiegargli la
situazione.»
«Ma
certo, gli dirò che Christian è tornato dalla Cambogia con la
febbre a causa di un morso di non so quale insetto del cazzo, che la
febbre l'ha ucciso, e che si è risvegliato con una gran fame di
cervello umano. Sono sicura che mi riempiranno di comprensione e
affetto, soprattutto dopo aver visto chi ho seppellito qui intorno.»
Christian
mi saltò di nuovo addosso, riuscii a spingerlo via e a prendere la
pietra. Per poco non mi azzannò un avambraccio.
Gli
tirai una sassata in faccia, barcollò per un attimo e tornò
all'attacco. Mi mise le mani al collo e cominciò a stringere. Avevo
la sua faccia a un centimetro dalla mia, con i denti che si aprivano
e chiudevano come tagliole, provando ad agguantarmi il naso. Il
liquame che gli usciva dalla bocca puzzava di pesce andato a male.
Gli diedi una testata, facendolo indietreggiare di un passo.
Gli
saltai addosso e riuscii a mettermi sopra di lui a cavalcioni.
Gli
spaccai la faccia a colpi di pietra, con tutta la rabbia che avevo in
corpo, finché non divenne una poltiglia sanguinolenta.
La
donna urlò e cercò di aggredirmi alle spalle, mi alzai di scatto,
mi piantò la lama nella gamba. Una fitta tremenda mi fece cadere la
pietra e urlare dal dolore. Le bloccai la mano che teneva il coltello
e con l'altra le afferrai la gola.
Provò
a rigirarlo nella ferita, e io a soffocarla.
A
quel punto era una gara a chi avrebbe perso i sensi per primo. Ci
inginocchiammo entrambi. Avevo la vista offuscata e le forze
cominciavano a mancarmi. Anche lei stava perdendo la presa. Non
riusciva più a muovere il coltello. Feci un ultimo sforzo, estrassi
la lama dalla ferita e gliela conficcai nello stomaco. Si contorse
dal dolore, e dopo qualche spasmo smise di respirare.
Mi
trascinai verso la fossa e chiamai Skip, chiedendogli se andava tutto
bene.
Saltò
fuori e mi aggredì: dalla bocca usciva schiuma scura e la pelle era
diventata olivastra. Gli occhi azzurri erano due palle vitree e
senz'anima.
Ero
sfinito. E anche se aveva un corpo minuto, a fatica riuscivo a
tenerlo a bada.
Tolsi
il coltello dallo stomaco della donna e glielo conficcai sotto il
mento. Si afflosciò come un pupazzo con le batterie scariche e non
si mosse più.
Su
una cosa la donna aveva ragione: lo sceriffo non credette alla mia
storia. Mi caricarono in macchina ammanettato e fui ritenuto
colpevole della morte di quelle persone. Anche Suellen non volle
darmi retta e mi abbandonò con una telefonata.
Mi
hanno buttato in una cella più sudicia del cesso che ho vicino al
letto. I detenuti mi vogliono fare le pelle perché ci è andato di
mezzo un bambino e in più non mi sento per niente bene. Da quando
sono arrivato ho cominciato a sentirmi male. Il cibo della mensa mi
fa schifo. E pur avendo fame, ogni cosa che inghiotto, la vomito
all'istante. E più vomito, più il cibo mi disgusta.
La
ferita sulla gamba è diventata violacea e puzza di rancido. Non mi
ero accorto del morso di Skip, fino a ieri. Mi prudeva da morire,
così tirai su il pantalone e vidi il segno dei denti.
Da
qualche ora comincio a sentire l'odore del sangue dei detenuti e il
battito del loro cuore che lo pompa. Ma la cosa che davvero non ha
eguali, è il pulsare dei loro cervelli. Me li immagino teneri come
formaggio spalmabile e succosi come un frutto maturo. Mi fa dare di
matto il pensiero di quanto dev'essere appetitoso.
Ogni
volta che ci penso, un fluido nero mi cola dagli angoli della bocca.
3 commenti:
Anch'io mi sono messo a scrivere racconti, ora. Molto meno stressante che sceneggiare fumetti.
Sono contento per te, Enrico. Che genere prediligi?
Creepy. I like it.
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